In
vista dell’imminente Settimana dell’Università, il 29 ottobre 2014 i fucini di
Cosenza hanno incontrato Marco Manna, giovane ricercatore presso il
Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università della Calabria, per
approfondire la situazione della ricerca universitaria nei nostri atenei.
Il prof. Manna è partito dalla sua esperienza personale per arrivare a spiegarci in modo più generale i passaggi fondamentali del cammino di formazione di un ricercatore: dottorato di ricerca, assegno di ricerca, borse post-doc, passaggio da ricercatore a professore associato, e via dicendo.
La situazione nel nostro paese è molto cambiata negli ultimi 4 anni: se infatti all’estero dopo la laurea si può usufruire di un dottorato finanziato dalle aziende, in Italia questo percorso rimane sempre nell’ambito universitario. L’ateneo offre allo studente l’opportunità di un dottorato di ricerca, della durata di tre anni, che vede il laureato impegnato in una formazione più specifica e che lo stimola a sviluppare l’autonomia scientifica indispensabile per chi intende intraprendere un’attività professionale di ricerca, in ambito accademico e non. Prodotto del dottorato di ricerca sono le pubblicazioni, articoli tecnici scritti da docenti e ricercatori sulla base di un’analisi sperimentale. Il lavoro può durare dai 6 agli 8 mesi e solitamente implica una collaborazione con l’estero, un passo fondamentale per entrare in contatto con altre
Dopo
il dottorato si può accedere all’assegno di ricerca tramite una selezione
pubblica, ottenendo così la possibilità di tenere un corso all’interno
dell’università in maniera autonoma, generalmente come esercitatore presso il
dipartimento che concede l’assegno. All’estero questa tappa prende il nome di
post-doc.
Prima
del 2010 la promozione a Ricercatore a tempo indeterminato avveniva dopo 3 anni
dall’immissione in ruolo; con la riforma Gelmini tale posizione è stata abolita
a favore di quella a tempo determinato o di professore associato. Si diventa
tali solitamente intorno ai 45 anni.
Oggi in Italia è sempre più difficile lavorare come ricercatore perché la specializzazione acquisita spesso non è facilmente impiegabile in un altro campo. Un dipartimento è come un’azienda privata: assume secondo determinati criteri e prende in esame l’esperienza dei candidati presentata nei curriculum. Il modello italiano, sebbene compatibile con quelli degli altri paesi europei, non è comparabile con essi in maniera immediata. All’estero si ha più spazio e meno vincoli: un docente, ad esempio, non deve necessariamente giustificare attraverso una lunga burocrazia la scelta di un candidato, poiché in caso di cattiva qualità del personale o di basso rendimento la responsabilità ricade su di lui con conseguenti tagli dei finanziamenti. Inoltre se nel nostro paese abbiamo un vasto numero di lavoratori precari anche dopo molti anni di servizio, nelle altre realtà europee l’impegno e il rendimento vengono premiati con il posto fisso, sia nel lavoro che nella ricerca.
Oggi in Italia è sempre più difficile lavorare come ricercatore perché la specializzazione acquisita spesso non è facilmente impiegabile in un altro campo. Un dipartimento è come un’azienda privata: assume secondo determinati criteri e prende in esame l’esperienza dei candidati presentata nei curriculum. Il modello italiano, sebbene compatibile con quelli degli altri paesi europei, non è comparabile con essi in maniera immediata. All’estero si ha più spazio e meno vincoli: un docente, ad esempio, non deve necessariamente giustificare attraverso una lunga burocrazia la scelta di un candidato, poiché in caso di cattiva qualità del personale o di basso rendimento la responsabilità ricade su di lui con conseguenti tagli dei finanziamenti. Inoltre se nel nostro paese abbiamo un vasto numero di lavoratori precari anche dopo molti anni di servizio, nelle altre realtà europee l’impegno e il rendimento vengono premiati con il posto fisso, sia nel lavoro che nella ricerca.
Sorge
dunque il dubbio se il modello applicato
all’estero risulti complessivamente migliore rispetto a quello italiano; di
conseguenza nasce la domanda del perché il nostro Paese non lo adotti
anch’esso. La risposta è incerta. Se da un lato infatti il modello dei Paesi
esteri sembri basato più sulla meritocrazia, il che rende qualitativamente
migliore il risultato finale, dall’altro c’è da dire che un simile metodo
risulterebbe inefficace nei nostri atenei. La motivazione risiede nella
“mentalità italiana”, la quale poco si riesce ad identificare sui criteri di
meritocrazia e di rendimento. Pertanto,
come spesso ed infelicemente accade, l’ordinamento giuridico non ha puntato a
cambiare (e migliorare) un aspetto sbagliato del modus operandi italiano, ma al
contrario ha regolamentato un intero sistema sul modus operandi vigente.
In conclusione, l’incontro è stato molto
costruttivo in quanto ha stimolato l’interesse dei partecipanti verso la
ricerca universitaria in Italia e in Europa e ha indicato quest’ultima come
un’ulteriore risorsa per costruire il proprio futuro senza rimanere troppo
legati alle proprie radici.
Cristina Iorno e Alessandro Giordano
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